Solo la voglia di stare in montagna e all’aria aperta, insieme all’impossibilità di farlo per le prossime settimane ci ha spinto a
programmare questa escursione; non è stato semplice decidere la destinazione, una perturbazione che scendeva da Nord non dava grandi
speranze, qualunque sito meteo dava acqua più o meno a catinelle e più o meno dappertutto. Una accurata ricerca presso che giornaliera
alla fine ci ha portato a Sud, dalle parti dei Marsicani, l’unico punto degli Appennini dove sembrava essere scongiurata la pioggia battente.
Siamo a Forca d’Acero, il fatto che sul passo ci sia una gratificante osteria non è un dettaglio insignificante ed ha condizionato non
poco la nostra scelta, l’altro elemento fondamentale invece era la voglia di portare Marina, finalmente, sulla cima di Serra Matarazzo.
Più o meno è andata così, più o meno ma non esattamente come da programma, la pioggia l’abbiamo scampata, la cima l’abbiamo mancata ma la
mangiata ce la siamo assicurata ed alla fine diciamo che un entusiasmante pareggio ce lo siamo portati a casa. Andiamo per gradi ed
iniziamo a raccontare la giornata.
Già da casa il cielo prometteva poco di buono, basso e nuvole grigie ci stavano consigliando di riporci sotto le pezze; siamo cocciuti e
ci avviamo belli pimpanti, male che doveva andare ci siamo dati alcune mete turistico gastronomiche per riempire la giornata. Fino a Sora
non ci siamo ulteriormente preoccupati, superata la cittadina ciociara le cime dei monti tutto attorno si andavano a perdere e confondere
nella grigia ed informe coltre nuvolosa che ristagnava alta ovunque, mi chiedevo cosa ci stesse aspettando al valico che si alzava fino a
1500 metri e ancora di più mi chiedevo se mai saremmo riusciti ad arrivare ai 2007 metri di cima di Serra Matarazzo, ero quasi certo di no.
Prima del valico, un chilometro prima circa, parcheggio su una piazzola a sinistra, c’è pochissimo spazio e un paio di metri dietro il
versante precipita, una grossa roccia sotto la ruota ritengo sia obbligatoria per assicurarsi il rientro; poco avanti, sulla destra inizia
il lungo traverso (sentiero P3, risale la valle e attraversa la dorsale del monte san Nicola fino ad infilarsi in val Fondillo) che taglia
il monte Panico e che lentamente si infila dentro la valle Inguagnera. Il cielo è basso ma la visibilità ancora buona, bella la vista verso
val di Comino e verso i tetti di San Donato spettralmente illuminati da un sole che non riesco a capire in quale maniera riuscisse a bucare
la fitta coperta di nuvole. La netta traccia fin qui quasi pianeggiante si infila dopo quindici minuti in una lingua di bosco che scende
dall’alto, faggi ormai quasi spogli e comunque spenti nei colori non riescono a ravvivare la giornata che si spegne completamente qualche
centinaio di metri più avanti quando dopo aver riattraversato una lingua di bosco più fitto e più largo si finisce per entrare dentro la
valle e si sprofonda nelle prime veloci scudisciate di nebbia che risale dal basso. Nemmeno troppo lentamente la visibilità cala a poche
decine di metri, poi anche a meno, la valle si stringe, i pendii, a destra di Serra Matarazzo a sinistra della dorsale del monte Panico e
San Nicola, svaniscono nel niente, il mondo sembra finire sulla prima duna visibile delle tante di cui è composta la valle, per fortuna il
sentiero è ben delineato e anche ben segnalato da bandierine bianco-rosse poste sugli alberi nel bosco e sulle rocce a terra. Non ho la
traccia caricata sul GPS per la cima di Serra Matarazzo, contavo di andare a vista, su un grosso roccione a metà valle una indicazione fa
intuire una biforcazione del sentiero ma quella a destra nemmeno si percepisce; intuisco che dovrebbe essere quella che sale verso la cima
della nostra montagna ma manca proprio la traccia, una linea di calpestio un qualche cosa che sia da seguire. Anche le carte su questo
versante non riportano sentieri verso la vetta di Serra Matarazzo, solo tracce tratteggiate che normalmente sono già difficili da seguire in
condizioni normali di visibilità; pur avendo il GPS con me, ma come detto senza traccia precaricata, la sua utilità si ridurrebbe solo ad
assicurare il ritorno, in quel mare di niente non abbiamo trovato motivazioni a continuare fino alla meta prefissata, il rischio di
girovagare fino a perdere la bussola era grande per cui abbiamo preferito continuare su P3 fino alla dorsale, fino a sella Inguagnera.
Ormai era solo una questione di voglia di camminare e di stare all’aria aperta, le previsioni del giorno prima e soprattutto le condizioni
ambientali non davano speranza di aperture improvvise, saremmo rimasti a “navigare” tra le nuvole. Non cambiando il panorama ciò che cambia
è solo il sentiero che dopo poco inizia ad inerpicarsi con rapide svolte, segnavia sparuti ed evidenti solo all’ultimo momento servono
solo a confermare che si rimane sul percorso giusto, continuiamo a salire fino a che non compaiono ombre scure, intuiamo essere il bosco,
passiamo sotto i primi faggi ormai completamente spogli e veniamo investiti da una gragnola di gocce come se piovesse; si alza anche un
vento sostenuto e capiamo che ci stiamo avvicinando alla sella sulla dorsale, non serve però ad allungare la visibilità. Il tracciato zig-zaga
nel mezzo di grossi roccioni mentre la pendenza si va attenuando parecchio, spiana, e poco dopo riprende a scendere, scende ancora dalla
parte opposta, segno evidente che siamo sulla sella, continuando ci si infilerebbe dentro val Fondillo, per oggi non crediamo sia proprio il caso.
La tentazione è quella di rientrare per la cresta del San Nicola e per il monte Panico, senza sentiero, fino ad intercettare la strada di
Forca D’Acero dall’altra parte della dorsale, continuare per la cima di Serra Matarazzo manco a parlarne; ma ci siamo chiesti quale pro
avremmo avuto, in cresta saremmo stati sbattuti dal vento, non avremmo visto un tubo secco e alla fine probabilmente ci saremmo anche
dovuti sudare la meta del ritorno. Il rientro lo decidiamo quindi per la stessa via dell’andata, riscendiamo dentro quel tormento di
saliscendi che è valle Inguagnera; il cielo scende ancora qual ora fosse possibile, sono appena le undici del mattino e sembra quasi
che si stia facendo notte, le nuvole corrono veloci portate dal vento e si sfilacciano davanti e sopra di noi, siamo zuppi come se avesse
piovuto. Ci rendiamo conto che capita poche volte di stare in un ambiente così surreale dove percepisci e senti tanto, dove non vedi nulla e
nello stesso tempo ti senti lontano da rischi; quando lo intuiamo quasi rallentiamo, anzi lo facciamo davvero. Prendiamo a goderci quel
mondo ovattato, le nuvole che assumono tutti i toni del grigio, il sentiero che si materializza ad ogni passo come le rocce disseminate
sul terreno; abbiamo tempo, lungo il sentiero mi diverto a rimettere in piedi una serie di paletti segnavia caduti poi rientriamo nel
bosco e la nebbia, anzi le nuvole, ancora più fitte, sembrano animare i grossi faggi che sfilano accanto al sentiero, il bosco sembra un
grosso e silenzioso esercito in procinto di riprendere la marcia. Una viperella tardiva viene quasi calpestata da Marina davanti a me,
me ne accorgo perché si muove appena ma come scossa dal pericolo corso se la prende con me che arrivo subito dietro, si pone in posizione
di difesa e simula un paio di attacchi, è poco convinta ma la sua lingua sibila a volermi intimorire mentre contratta e appena alta sulle
spire si muove a scatti come a volermi dire che se faccio un altro passo proverà a mordermi. Intanto fatti fotografare, gli parlo quasi
riuscisse a capirmi, poi se vuoi proverai ad assaggiare i miei scarponi; so che è troppo freddo perché trovi tutta questa energia è l’istinto
che la fa agire. La aggiro per non urtarla ancora e rimane in posizione seguendomi con lo sguardo senza abbassare la guardia; mentre mi
allontano mi chiedo se avrà la forza e il tempo di trovarsi una tana. Perché le vipere vanno in letargo, vero? Si, si ci vanno ma credo sia
meglio che aumenti la mia cultura in proposito. Comunque inoltrarsi nel bosco con le nuvole che lo ammantano ha un fascino incredibile, il
silenzio è totale perché il vento non riesce a filtrare qui dentro, bello anzi bellissimo. Quando invece, dopo poco, riprendiamo a sentire
rumori di auto lontane, nonostante l’esercito dei faggi ci stia ancora sfilando accanto, capiamo che stiamo per rientrare alla base, ora ci
aspetta il lungo traverso fino allo spiazzo dove abbiamo lasciato la macchina. Di San Donato in Val Comino nemmeno l’ombra, solo per un momento
intravediamo il nastro di asfalto che scorre una cinquantina di metri più in basso poi tutto sparisce di nuovo. Quando arriviamo alla macchina
si sono fatte le dodici e trenta, quasi l’ora giusta per sedersi a tavola. Dentro l’auto si sta meglio, riparati dal vento e soprattutto
dall’umidità ci riprendiamo dal torpore che ci aveva colto. Forca d’Acero è più su di quasi un chilometro, la raggiungiamo e ci sistemiamo
dentro l’osteria accanto alla stufa che sta andando a tutta; è un piacere antico ed intimo quello che si prova nel ritrovarsi al caldo dopo
più di quattro ore passate all’aperto a contatto con vento, nuvole e freddo. Il tagliere di arrosti e il vino rosso ci restituiscono il
calore perso, la fiamma della stufa e l’ambiente semplice e tipicamente montano di questa antica osteria ci scaldano anche dentro. Il ritorno
a casa è stato lento, le curve fino a scendere a Sora le abbiamo dovute intuire tanto basse erano le nuvole. Un caffè a Sora al solito bar ed
una piccola deviazione ad Anagni, la voglia di buono e di bello non si era sopita ancora, m’è venuto in mente Quattrociocchi, produzione
propria di latticini e formaggi, mi ci sono fermato un po’ di tempo fa, dal casello dell’autostrada solo pochi minuti, tanta è stata la
soddisfazione che ci hanno regalato quelle mozzarelle la sera a casa ed il giorno successivo. Un modo per non chiudere mai le giornate vissute in montagna.